Fuori città, su una delle colline attorno a Praga, proprio accanto agli studi cinematografici di Barrandov, si nasconde ammantandosi nel verde la casetta di Svoboda: in realtà una villa, come si può constatare, una volta ammessi all’interno, dal vero fronte, cioè dietro, dove s’affaccia a un giardino che fa da osservatorio sulla piana e si butta a capofitto verso quella scenografia incredibile, infittendosi in un bosco scosceso. La casa esprime e ci rivela infatti, e non per la semplicità funzionale del suo décor, la natura di un artista che ha la sua qualità caratteristica nel coniugare l’assoluto col quotidiano e persegue la massima scientificità partendo da una pratica artigianale. L’origine di un’opera sterminata ha le sue radici in un’osservazione concretamente radicata nella realtà, che fornisce l’immaginario e le materie prime per realizzarlo, anche se tale concretezza verrà rigenerata alla luce dei testi di cui sono intuite nel profondo le istanze da suggerire sensorialmente. Bisogna superare il soggiorno, l’attrattiva del panorama, le tentazioni olfattive promesse dalla cucina, per raggiungere le scale che già preannunciano una museale distesa o forse un kafkiano proliferare di schedari. E se, a questo punto, si preferirà salire, rimarremo prigionieri degli archivi di un collezionista del mondo. Un entomologo che trascorre le sue giornate a fotografare fiori? O un inseguitore di farfalle in volo? Un ritrattista che ruba ricordi di volti o fissa imprevedibili atteggiamenti? Nelle migliaia di diapositive o di negativi catalogati per soggetti negl’infiniti scomparti c’è l’opera di un fotografo inesauribile di cose, animali, persone, momenti di vita, feste, cerimonie,. gare sportive, paesaggi, architetture, curiosità d’ogni tipo pronte da un momento all’altro a divenire materiali d’ispirazione o d’uso, da proiettare o riprodurre in scena. Ma se si va oltre quell’inventario d’esperienze visualizzate, settore per settore ci s’imbatterà nei reperti naturali o elaborati, le pietre, i metalli, i campionari di tessuti, i vari tipi di plastica, e poi gli strumenti, gli arnesi, gli attrezzi, i piedistalli di legno… Per non dire dei barattoli di vernice, al servizio dell’inventore di colori che ben conosce di quante tinte si compone il bianco e che la polvere sulla scena può essere creata con la luce. “Il teatro è una professione magnifica che combina le professioni”, dice Svoboda, ricordando di essere stato anche falegname, prima che fotografo, cineasta, naturalista, chimico, sarto, tintore e via elencando. Ovviamente è architetto, (“americano”), musicista, per quel minimo che gli dia confidenza con gli spartiti e “pittore senza farsene uno scopo”. E la scienza? Ora è inevitabile misurarsi con l’elettronica, ma da sempre naturalmente la matematica è la base tassativa di tutti gli allestimenti di Svoboda, puntualmente maturati provando e riprovando, dove è ogni volta indispensabile calcolare l’incidenza della luce o la pendenza degli specchi, il peso dei materiali o la velocità dei tempi. Se il teatro ha le sue ferree leggi, la sperimentazione non può arrestarsi davanti a nulla. Arrivati i primi laser lo scenografo riuscì a farli decomporre, perché per Il flauto magico di Monaco aveva bisogno della visualizzazione degli elementi, acqua, aria, fuoco: sapendo che un raggio laser si compone di altri raggi, si presentò allora al Centro Sperimentale della Siemens a Erlangen, chiedendo di operarne lo smontaggio, dopo che s’era già esercitato in proprio in qualche test; e in tre settimane, la società gli preparò a proprie spese la macchina che rifrangeva la luce, per un costo di quattrocentomila marchi fiscalmente detraibili. Ma è sottoterra, tra alcune delle sezioni di materiali già citate,. che il mago esercita le sue arti magiche, in un laboratorio faustiano, dove, tra l’altro, lo colsi una volta alle prese con l’opera di Goethe per la messinscena praghese in due serate del ritrovato Krejca. E non poteva esimersi dal ricordare che lì, dopo tre settimane di stallo a Milano, ai tempi del Faust del Teatro Studio, era nata, tra altre alternative da proporre, l’idea di quella spirale che avrebbe soddisfatto Strehler e salvato i suoi principi (“Ogni spettacolo per me esige il ritrovamento di una cosa che dica tutto”): ci vollero dunque trecentocinquanta metri di seta di tre metri di larghezza, montati in una figura discendente leggera ed equilibrata, armonica e generatrice di ritmo, che non pendesse né facesse pieghe, non fosse ricucita ma incollata, tenuta insieme con precisione, perché “dentro conteneva un segreto matematico”. E’ qui che nasce ogni progetto, sul palcoscenico rimodellabile a volontà del teatrino, tra una ragnatela di fili tesi, sotto il tiro di un impressionante sistema di fari, con un banco ottico che consente di riprodurre le distanze focali tra l’azione e i fari strutturati in modo da poter sostituire le lenti, e su queste basi commissionare la costruzione su misura dei riflettori necessari per l’allestimento in preparazione. Qui non solo vengono provate le scene, ma sondati gli effetti e miniaturizzata qualsiasi situazione teatrale. Lo scienziato e l’artigiano s’incontrano e l’empirismo delle soluzioni di partenza viene rigorosamente verificato al vaglio matematico. Se il maestro, compagno di lavoro squisito, esalta la collettività del suo mestiere, tanto da spendere calorosi attestati a favore dei tecnici, in questo laboratorio è un creatore assoluto e solitario, indipendentemente da quello che sarà poi l’intervento del regista. Nel gabinetto ottico prima che sul posto, vengono anche elaborate, saggiate e definite le luci, che delle sue scenografie fanno parte integrante, anzi costituiscono un elemento base, tanto che il maestro non accetta che nessuno si occupi per lui dell’illuminazione di una sua opera. Lo spettacolo viene premontato con precisione rigorosa e millimetricamente calcolata in tutti i cambi e i movimenti scenici, indicando anche per una questione di rapporti spaziali le figurine dei personaggi accanto alla scenografia, che a sua volta acquista un peso di personaggio e sarà comunque condizionante rispetto all’azione effettiva. Si capisce di conseguenza l’influsso che l’intervento di Svoboda ha sulla messinscena e le limitazioni che può porre all’intervento registico, rivendicando un peso da autentico coautore, anche se ciò non è stato d’ostacolo alla sua collaborazione con un ventaglio di grandi personalità direttoriali con le quali i progetti sono stati discussi, confrontati, corretti, pianificati. Lo stesso scenografo, così legato al premontaggio laboratoriale, è il primo a rendersi conto dei diritti della concretezza e a conoscere, aldilà delle necessità recitative, le leggi dello spazio con i relativi margini d’imponderabilità: sa bene come un cambio d’ambiente a causa di una tournée può giustificare ritocchi radicali, ma anche che il suo allestimento ideale, dettagliatamente concepito per un luogo determinato, potrà subire dei ribaltamenti dell’ultima ora; anzi lo sentiremo pure riconoscere, in questa facoltà scomoda ma appassionante di rifare tutto all’ultimo e di risolvere le situazioni d’emergenza improvvisando, un elemento di superiorità inventiva del teatro sul cinema.
Il teatrino di casa Svoboda non è però destinato soltanto alla progettazione. In qualsiasi momento il maestro potrà smettere il costume di mago per ricreare e rivedere all’infinito i suoi spettacoli, passandoli in questa sorta di suo computer manuale. Basta sfilarne gli elementi dalle rispettive scatole: gli schedari della cantina tutt’ intorno contengono infatti i bozzetti dell’intera sua opera, corredati dai dati in grado di rianimarli. E’ quindi affar di poco sfidare i decenni e le distanze tra i continenti per mostrare all’ospite magari l’entrata in scena dei Sei personaggi di Lovanio o la scomposizione e i successivi spostamenti dei giganteschi visi del Poseidone creato per l’Idomeneo di Ottawa; o risuscitare qualcuno dei molti trucchi ideati operando sulla rifrazione della luce, per esempio il famoso riflesso che riuscì a materializzare lo Spettro nell’Amleto di Pleskot nel 1959. Il teatrino diventa allora strumento della memoria e giocattolo. Ma al suo fianco, come se entrassimo ora in un sacrario, ne scopriamo un altro che non serve alla creazione o alla ricreazione; poco più in là difatti ecco, spuntato da un museo o da una mostra, il teatrino fisso che ripropone la ricostruzione del fantasma appena citato, come avveniva prima: realizzata grazie a una semplice diffrazione dell’immagine, secondo un meccanismo ottocentesco, ponendo l’attore che lo rappresenta sotto al palco. Anche il nuovo abbisogna del viatico della Storia. E nella Storia il più grande scenografo del Novecento c’è entrato da tempo, reinventando un’arte che è prima di tutto un lavoro.
La vita
Josef Svoboda è nato il 10 maggio 1920 a Caslav, una piccola città della Boemia, nell’attuale Repubblica Céca. Fin dai tempi della sua formazione, il legame fra apprendimento teorico e esperienza sul campo, creatività e manualità è fortissimo e sarà determinante in tutta la sua vicenda artistica di scenografo e regista. Il primo incontro di grande rilievo con il teatro è nel ’46, quando diviene direttore di produzione al Teatro del 5 Maggio di Praga.
Al Teatro Nazionale, è responsabile di produzione fino al ’50 e, nei venti anni successivi, ricopre l’incarico di direttore artistico. Dal ’70 è scenografo principale dello stesso Teatro; l’anno prima aveva ottenuto la docenza all’Accademia di architettura e arti applicate. Nel ’73, insieme con Afred Radok, fonda la Laterna Magika, di cui è rimasto direttore artistico fino al maggio dello scorso anno.
Le opere
La teatrografia di Josef Svoboda conta, dal 1943 a oggi, settecento titoli. Gli spettacoli teatrali hanno affrontato molteplici aspetti della drammaturgia di ogni tempo: dai tragici greci a Shakespeare, da Rostand a Cechov e gli altri autori russi fra Otto e Novecento, e ancora Brecht, Lorca, Durenmatt… Vastissimo – per varietà di autori, tipologie ed epoche – anche il ventaglio di opere liriche e balletti con musiche di Mozart, Beethoven, Verdi, Bellini, Wagner, Puccini, Smetana, Dvorak, Berg, Nono… Gli spettacoli sono stati realizzati e ospitati nei principali teatri del mondo, fra i quali, in Italia, La Scala e il Piccolo Teatro di Milano. Sempre in Italia, nel 1991 nasce la collaborazione artistica – spettacoli, mostre seminari – con La Corte Ospitale.
La filmografia annovera una decina di opere. Fra le più recenti: Le tre sorelle con la regia di Laurence Olivier (1970), Bio Engineering per la regia di Ove Nyhola (1983) e Amadeus, con regia di Milos Forman (1984). Il contributo del maestro è stato significativo anche in una ventina fra produzioni televisive e scenografie per spettacoli audiovisivi.
Fra le varie pubblicazioni dedicate a Josef Svoboda e alla sua opera, ricordiamo l’autobiografia I segreti dello spazio teatrale, a cura di Elena De Angeli e Franco Quadri, edito nel 1997 da Ubulibri in collaborazione con La Corte Ospitale. Il volume contiene, oltre a testi coinvolgenti e illuminanti sull’opera e la personalità di Svoboda, anche un’ampia e preziosa documentazione fotografica, ed una dettagliata schedatura della produzione del maestro. Da questo volume sono state tratte le dichiarazioni di Svoboda, riportate nella presente guida.
Da un seminario tenuto da Svoboda a Modena, sempre nel ’97, La Corte Ospitale ha tratto e pubblicato un testo – ricco di aneddoti chiarificatori e brillante, come è lo stile del maestro – nel volume Un anno di progetto di un centro interdisciplinare.