“La luce è per me un elemento fondamentale della creazione dello spazio teatrale. Per questo non sono d’accordo di separare la professione dello scenografo da quella del disegnatore luci”.
E’ la luce che consente a Josef Svoboda di interpretare lo spazio scenico trasformandolo in spazio drammatico e proprio l’attenzione che da sempre egli ha dedicato alla progettazione degli apparati tecnici, gli ha permesso di sviluppare con grande precisione il suo linguaggio artistico: “solo la profonda conoscenza dei meccanismi della luce e la capacità di dominarla in ogni sua componente” egli sostiene “può consentire ad un artista di esprimere appieno la propria creatività”.
Molte sono le invenzioni che portano la sua firma, geniali quasi sempre le applicazioni del segreto della luce nei sistemi di proiezione e di multivisione su schermi dei materiali più diversi, di volta in volta sperimentati per ottenere un preciso effetto drammatico, suoi gli innumerevoli trucchi ideati operando sulla rifrazione della luce, come per esempio il famoso riflesso che riuscì a materializzare lo Spettro di Amleto nell’edizione del 1959, suoi gli apparati, frutto di una paziente sperimentazione, che si basano sull’utilizzo dello specchio, sia di vetro che in folio con risultati spettacolari e a dir poco sorprendenti, tecniche tutte che sono entrate a far parte della storia del teatro contemporaneo.
Ne diamo qui alcuni esempi, a partire dalle cosiddette Luci Svoboda, proiettori teatrali che proprio dallo scenografo boemo prendono il loro nome. Si tratta di un sipario di luce, tanto potente da originare una vera e propria barriera luminosa che crea una sorta di sfumatura sul fondo della scena mentre in primo piano, oggetti e personaggi, illuminati con estrema nitidezza si staccano dalla massa luminosa e acquistano una grande definizione dei contorni.
Per l’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958, l’allestimento scenografico del padiglione riservato alla cultura cèca e slovacca fu affidata a Svoboda, nella triplice qualità di arredatore della sala, di autore dello schermo multiplo, Polyecran, e di fondatore, assieme al regista Alfred Radok, della Laterna Magika. Su una serie di schermi di forma trapezoidale o quadrata situati in uno spazio completamente nero, si susseguivano le immagini, fisse o mobili, rimandata da sette proiettori cinematografici e otto per le diapositive, mentre l’intera sala risuonava della musica diffusa dai riproduttori stereofonici. La costruzione e la produzione dello schermo multiplo fu affidata all’Istituto sperimentale della tecnica per la produzione del suono e della luce: un circuito dirigeva tutte le funzioni dello spettacolo, inclusa la sincronia tra suono, luce, immagine, un vero e proprio miracolo della tecnica per l’epoca.
Dato il successo dell’Expo di Bruxelles e i crescenti consensi raccolti dalle rappresentazioni della Laterna Magika, Josef Svoboda fu incaricato di progettare l’allestimento di un’intera mostra all’esposizione Universale di Montreal. Ne nacque un complesso sistema audiovisivo, la multivisione, composto da quattro sistemi, frutto dell’esperienza di Bruxelles.
Il primo, Sinfonie, consisteva nella proiezione su cubi, prismi e superfici piatte di figure create da un fascio di luce rotante. Tutti gli oggetti si muovevano in verticale ed in orizzontale ed il loro movimento veniva moltiplicato dagli specchi disposti secondo una certa angolazione. Il secondo, l’Origine del mondo, era un mosaico composto da 112 quadrati, ognuno dei quali era occupato da due proiettori per diapositive, capace di 160 passaggi. Tutti i quadrati potevano spostarsi in avanti o all’indietro in modo da creare immagini intere e nello stesso tempo da poter disintegrare la superficie di proiezione, ricomponendola poi in modo diverso. Il terzo sistema, L’industria tessile, era costituito da tre rettangoli di corde che si muovevano e sovrapponevano rendendo così la superficie di proiezione più o meno rarefatta. Il quarto, infine, La pentola a pressione, poggiava su 18 superfici statiche circolari che creavano un apposito spazio di proiezione. I quattro meccanismi, anticipando il principio del computer, creavano un complesso che lo spettatore poteva seguire nel suo insieme.
Noricama è il nome dato da Svoboda ad una installazione audiovisiva realizzata a Norimberga per celebrare il quinto centenario della nascita di Albert Dürer. Si tratta di una superficie di proiezione a forma di cinescopio diviso verticalmente in sette campi, ognuno dei quali può retrocedere in profondità, a distanze varie, fino ad un massimo di 5 metri, creando così uno spazio scenico di volta in volta differente sul quale ambientare una vivace discussione con Dürer in cui si trattava della storia tedesca attraverso l’apocalisse della seconda guerra mondiale. Lo spettacolo attirò pubblico al castello di Norimberga per dieci anni.
Al 1973 risale l’allestimento in Canada del padiglione americano per una grande mostra dedicata all’ecologia, L’uomo e il suo ambiente. Il padiglione, un’enorme sfera di vetro illuminata dalla luce diurna, esistente fin dal 1967 ai tempi dell’Expo di Montreal, era riempito da migliaia di palloncini di gomma leggera che quando erano lasciati liberi di salire in aria aderivano alle pareti del globo ed oscuravano il padiglione. Quelli bianchi, puri, dal diametro di 30 centimetri, funzionavano come schermi di proiezione su cui venivano proposte visioni di natura incontaminata, mentre il pubblico era costretto a farsi strada attraverso altrettanti palloncini neri, impuri, e l’intero spazio produceva l’effetto di una struttura molecolare.
All’epoca della messinscena de Il flauto magico di Monaco risale l’incontro con i primi laser. Il Centro sperimentale della Siemens a Erlangen, in tre settimane gli preparò la macchina che rifrangeva la luce, dopo che lo stesso Svoboda si era esercitato con qualche test, per così dire in proprio, nello smontaggio di questo nuovo sistema di produzione della luce.
Tecnica, sperimentazione, genialità, ma, soprattutto, grande sensibilità artistica caratterizzano l’atteggiamento di Svoboda nei confronti dell’uso drammatico della luce, come testimoniano le parole, con le quali ricorda il memorabile allestimento della Carmen al Metropolitan di New York nel 1972: “ …per questa Carmen creai una scenografia di sole luci. Ottenni 150.000 watt in più rispetto alla normale illuminazione del palcoscenico…la luce era talmente forte che fu necessario dipingere di nero alcune pareti, altrimenti il riverbero avrebbe abbagliato il pubblico….Alla fine dell’opera, Carmen, vestita di bianco, stava appoggiata a un muro accecante, e contro di lei Don Josè era vestito di nero, con una macchia scarlatta sul costume. Carmen finì semplicemente bruciata da quella luce fortissima”, testimone e vittima innocente della bruciante passione che la conduce alla morte.
L’ultima invenzione del Maestro, infine, un complesso sistema di proiezioni luminose su una parete di specchi semitrasparenti, realizzata per la più recente produzione de la Laterna Magika, lo spettacolo La trappola, è riproposta all’ingresso della mostra, quasi ad esemplificare un’intera vita di ricerca e sperimentazione del grande scenografo e, al tempo stesso, ad introdurre lo spettatore nei segreti della sua arte.