Il labirinto del desiderio
Drammaturgia, ideazione e regia: Franco Brambilla
Musiche: Alfredo Lacosegliaz
con:
Laura Cadelo, Giuseppe Calcagno, Tony Contartese
musiche dal vivo: Alfredo Lacosegliaz, Cristina Verità
Assistente alla regia: Daniele Bergonzi
Luci: Giovanni Garbo
Tecnico del suono: Gianpaolo Rampini
Movimenti di scena: Lucia Manghi
Realizzazione scene: Attibus
Presentazione
“Il linguaggio sta alla poesia come l’erotismo all’amore e di questo scarto parlo, non del linguaggio e nemmeno della parola poetica o dell’amore, ma dell’immagine e del desiderio che diviene parola poetica, viva, atto creativo e vitale. Amore,erotismo,passione? No, parlo di morale. La modernità ha trasformato il desiderio erotico in un settore assai promettente dell’economia di mercato. La degenerazione dell’erotismo è un autogol che il nostro mondo subisce da se stesso“ dice Franco Brambilla parlando de Il labirinto del desiderio, uno spettacolo di teatro-danza, ove i temi del desiderio, della pulsione erotica e dell’arte, prendono rilievo attraverso diverse forme espressive, nelle installazioni visive, nelle evocazioni di paesaggi sonori, nella gestualità iconica dei movimenti, fondata sulle immagini, su ritmi imposti dalle passioni, su fugaci visioni, che ci portano verso l’identificazione di possibili storie.
La partitura scenica creata da Franco Brambilla si intreccia a quella sonora delle splendide musiche di Alfredo Lacosegliaz, si compone con l’interpretazione degli spazi, nelle suggestive installazioni che rappresentano la cifra stilistica dello stesso regista, si affida alla gestualità degli interpreti, si nutre di citazioni tratte dalla cultura del ‘900, allusioni più o meno esplicite che si allargano dal tessuto poetico a quello letterario, dalla saggistica alla musica alle arti visive: Proust, Lautreamont, Mallarmé, Rilke, Valery, Freud, Baudelaire, ma anche Hopper, Rauschenberg…; segni che accompagnano le parole, i gesti, i suoni, quasi mai altro che un pretesto lirico cui lo spettatore può riferirsi per costruire un percorso emozionale, un proprio trattato delle passioni, e cogliere forme e visioni del desiderio, dei sentimenti e delle pulsioni nella loro forza drammatica.
E’ come perdersi in un Labirinto del desiderio pieno di ritorni, rimandi, illusioni, echi e riflessi, in un gioco ove la parola, nata per le immagini della scena deve morire nello sguardo dello spettatore.
Massimo Marino
Il labirinto del desiderio è il titolo di uno spettacolo dedicato all’amore. Ci è capitato di vederlo la sera di San Valentino. Ma non c’era niente di sdolcinato, né di commerciale. Al contrario l’amore era attraversato come un luogo arduo di conoscenza interiore, di approfondimento sentimentale. Attraverso pensieri contrapposti, citazioni letterarie, immagini, visioni. Un labirinto, un cammino verso un centro che non si trova, che quando all’improvviso si incontra rimanda altrove, di nuovo a ritroso verso le asperità del percorso.
Franco Brambilla regista, nonché direttore artistico dello spazio che ha prodotto il lavoro – La Corte Ospitale di Rubiera, un vivace centro teatrale impiantano nel cuore della bassa fra Modena e Reggio Emilia – ama fare un teatro insieme intellettuale e visivo, cercando di insinuare nello scarto fra immagine e parola, nella giustapposizione di materiali non dissolti in una struttura narrativa onnivora, la scintilla segreta dello spettacolo. Qui aggiunge un ulteriore elemento strutturante: una musica pervasiva, fatta di temi e sonorità perennemente in fuga, che si inseguono quasi senza mai trovarsi, in preda al demone della metamorfosi, dello slittamento. Composta da Alfredo Lacosegliaz ed eseguita su diversi strumenti acustici dallo stesso autore e da Cristina Verità.
Lo spettatore è condotto in un labirinto le cui stanze, corridoi e falsi passaggi sono formati da figure d’amore: amore e morte, amore è morte, gelosia, eroici furori, desiderio, abbandono, passione, fuga e così via. Frammenti di un discorso amoroso, sulla scorta di Rolands Barthes, diversamente componibili. Alle differenti strade per penetrare in questo viaggio psichico alludono dadi fatti con cubetti di porfido scagliati in un cerchio segnato al centro del teatro, a indicare la possibilità di scegliere il percorso fra diverse ossessioni. Incarnano le figure del pensiero e dello sragionamento amoroso le voci morbide e comprese di Giuseppe Calcagno e di Tony Contartese, presenze forse un po’ troppo acerbe, apparizioni spiritate che tessono i fili del discorso in ogni punto della sala e poi sul palcoscenico, in dialogo con le astratte figure disegnate dalla danza di Laura Cadelo. Il corpo di quest’ultima sembra di volta in volta avvitarsi in un vortice di fuga o cercare di pervadere l’altro, mentre riflessioni e frasi di Proust, Lautremont, Mallarmé, Rilke, Freud, Joyce segnano i confini di un sentimento complesso e mordente come una ferita nella carne e nell’anima, davanti a un sipario d’acqua che inesorabilmente cade, su un piano inclinato dove ogni apparenza diventa figura psichica profonda, inattingibile se non per intuizione. E fra le luci sospese di Giovanni Garbo spuntano figurazioni rubate alle arti visive, a Rauschemberg, a nitide ed esauste marine di Hopper virate in toni crepuscolari.
Di un crepuscolo si parla, dove vibra la nostra vita interiore, tesori che basta scavare con una memoria ancorata a un desiderio di possesso o anche a un rimpianto troppo reali perché finiscano dissipati. Come a dire che l’amore vive d’immaginario, di figure, di scarti, e che crea un’immaginazione poetica superiore a ogni laccio troppo stretto che avvince i corpi, a ogni pietra sospesa minacciosa sulla testa (sono altre delle immagini composte nel Labirinto), a ogni definizione troppo prosastica e definita. Questo spettacolo non chiede di ragionare. Con ritmo iterativo e fascinatorio domanda abbandono, per trovare un’unità di misura alla dolcezza della fuga e alla geometria del ritorno a se stessi.