Aqua micans
Ideazione e regia Franco Brambilla
Musiche originali Alfredo Lacosegliaz
Con Roberto Andrioli, Marco Bendoni, Abdelhakim Birouk, Laura Cadelo, Tony Contartese, Rufin Doh Zeyenoui
Scene e disegno luci: Giovanni Garbo
Allestimenti: Lucia Manghi
Con:
Marco Aicardi, Jacopo Bassoli, Juri Pevere
Scenografi: ATTIBUS – Bologna
Video: Ieris Fochi, MEDIAVISION – Reggio Emilia
Assistenti: Riccardo Bernini, Riccardo Palmieri
Sostegno: Fiorangela Pecchi, Rosanna Turci, Raffaella Gimignani, Daniele Zavatti
Produzione: La Corte Ospitale
Presentazione
“L’ aqua-micans possedeva, per una speciale ossigenazione, varie proprietà eccezionali, ma in particolare permetteva agli esseri puramente terrestri di respirare senza fatica entro di essa”; così commentano ammirati per la straordinarietà del fenomeno, gli ospiti di Cantarel, il geniale scienziato-inventore cui Raymond Roussel affida il compito di maestro-guida per illustrare ai visitatori i segreti di Locus Solus.
E proprio dalla suggestione di questo indimenticabile testo dell’autore francese prende le mosse lo spettacolo-installazione creato da Franco Brambilla che non trascura, però, altre sollecitazioni, meno surreali ma altrettanto convincenti nella loro apparente astrazione: lo scorrere del tempo e, scandito dai secondi, il flusso delle nascite e delle morti nei paesi dei cinque continenti, con una allusione, neppure tanto velata, dello squilibrio su cui si reggono le sorti del nostro mondo ed una implicita denuncia, attraverso la chiave della poesia che scaturisce dalla forza stessa delle immagini, di quegli stessi temi che sono oggetto di scontri, confronti ed alleanze in questo nuovo millennio tra le forze politico-economiche che fanno capo alla organizzazione dei G8 e il cosiddetto “popolo di Seattle”.
L’acqua, l’acqua scintillante, l’acqua cangiante (dalla etimologia latina volutamente evocata nel titolo dell’installazione) poiché capace di contenere un intero universo di riferimenti simbolici alla sua capacità di essere al tempo stesso elemento di vita e di catastrofiche distruzioni, è il filo conduttore dello spettacolo: dalla scelta delle installazioni che ne rievocano le caratteristiche, nella regolare e ritmica sequenza delle gocce battenti sul metallo dei secchi allineati su uno dei lati del chiostro dell’Ospitale, (in cui gli spettatori attenti potranno ritrovare una voluta citazione da un indimenticabile spettacolo dello stesso regista, SS9 Ulysses on the road ) , alla suggestiva ambientazione di un secondo spazio interamente occupato da pendule e trasparenti placente d’acqua – quasi una rievocazione dell’origine primigenia del mondo – alla ricca selezione dei testi che spaziano da Leonardo da Vinci, alle fredde ed impressionanti statistiche ricavate dai rapporti FAO e OECD sulla diversa presenza/assenza nel mondo del prezioso elemento vitale, sulla sua penuria che sempre si accompagna ad uno stato di sottosviluppo, sull’incosciente abuso perpetrato dai paesi ricchi che, pur rappresentando una netta minoranza della popolazione mondiale, consumano i 4/5 delle risorse idriche a disposizione.
E allora, nelle miracolose qualità dell’aqua micans di rousselliana memoria, in cui, completamente immersa nel liquido miracoloso, si potevano osservare le fantastiche e musicali evoluzioni della danzatrice Faustine”, era già simbolicamente contenuto il messaggio del lavoro di Franco Brambilla: l’acqua leggera e rapida nel suo corso continuo come il tempo non lascia tracce e segni se non dove non scorre più, nei solchi scavati nelle rocce, nelle vestigia delle antiche onde, ancora riconoscibili nel moto sinuoso delle dune del deserto, nei cumuli di terra argillosa ove il tempo ha sedimentato le sue forme, nei canti e nelle danze rituali che evocano la presenza della pioggia portatrice di vita e speranza.
L’acqua è di per sé dotata di una potenza incalcolabile e al tempo stesso neutrale nella sua naturalità innocente: spetta a noi trasformarla in una fonte di vita o di morte, di giustizia o sopraffazione e l’arte, forse, potrà aiutarci a riflettere ancora una volta sulla fragilità della condizione umana.
…”io credo che il teatro possa essere descritto come “ il fattore tempo al lavoro nello spazio “o, se si preferisce, si può dire che esso sviluppa un’occupazione spaziale e un attraversamento temporale. Se alla base di questo attraversamento c’è l’acqua, ecco che proprio l’acqua, che produce la metafora della fluidità, sviluppa di per sé stessa un’occupazione spaziale e un attraversamento temporale.
L’acqua, metaforicamente, lavora a due livelli, in cui sono coinvolti l’artista e il pubblico, e libera la dimensione di naufragio; voglio dire, quanto al pubblico, che lo spettatore è sempre qualcuno che rispetto all’arte vive recintato nello spazio rassicurante della distanza da cui, come un voyeur, guarda con una vista lunga l’opera, ( sia essa una pittura, un’installazione, un film, uno spettacolo ) dentro cui avviene la catastrofe…quel naufragio che l’artista vive dall’interno, con azioni poi esteriorizzate, sublimate, confermate nella produzione formale e a questo naufragio assiste il pubblico a rassicurante distanza.
Uno spettacolo come Aqua Micans abbatte le distanze tra pubblico e opera e permette di vivere più da vicino il “naufragio”. Queste considerazioni sono avvalorate dalla struttura stessa di Aqua Micans che mi pare essere costituito da sei quadri, da sei stazioni, in quanto nella prima parte c’è questo ritmo che sebbene in qualche modo sviluppi un movimento musicale, sostanzialmente lavora in orizzontale secondo un trend minimalista, nel senso della linearità della goccia, che stabilisce la costanza , l’incidenza, la pregnanza della goccia che scava, che entra nella terra. Diciamo che nel primo quadro l’acqua si fa sostanza, si fa traiettoria, vettore, freccia trasparente che incide ed impregna. Che cosa sono questi secchi se non dei tamburi capovolti, dei tamburi convessi, accoglienti, stereofonici? Essi sono semplicemente contenitori di un suono e attraverso il suono l’acqua si vaporizza, si smaterializza, apre la possibilità che la scenografia diventi installazione, occupazione orizzontale di uno spazio, il tempo che entra nell’opera e direi anche tante memorie, lacerti, citazioni.( pensate che l’arte povera discende dal teatro povero di Grotowski )
Quando parlo di interagenza parlo di una storia dell’arte frutto di una interagenza, di uno scambio laddove il pittore diventa scultore, laddove il portatore di una tecnica impropria si esprime proprio in quanto riesce ad assorbire con la mano sinistra ciò che produce con la mano destra. Questo è un teatro dove l’acqua è fluida e passa sotto i piedi degli attori e anche degli spettatori, l’acqua passeggia, si muove si condensa in una iconografia proiettata, diventa danza, scomposizione, geometria, caleidoscopio di un’immagine dove l’acqua assicura tutte le funzioni possibili, appunto il naufragio, la peripezia, l’attraversamento dopo il concerto d’acqua concreta all’interno dei secchi. Nella seconda “stazione”lo spazio è ancora più accogliente, c’è una figura femminile che si esercita nella danza della vita. Dunque l’acqua si tramuta, si modifica, si lega e si arriva così alla voce registrata della quarta “stazione” dove l’acqua si è completamente vaporizzata e diventa un discorso filosofico garantito dal ticchettio della sveglia, il discorso sul tempo che sospende l’azione e fa precipitare lo spettacolo nel suo momento di maggiore pregnanza, di forte ironia, laddove l’uomo nel fango non è l’uomo d’argilla che nasce, è l’uomo sottoposto ad una sorta di struttura dove la condizione umana sembra irreversibile, definitiva e assolutamente incancellabile. Poi il momento finale dove la danza apotropaica sembra restituire all’acqua il ritmo, l’acqua si trasforma in grumo attaccato alla seconda pelle dei costumi e porta con sé un ritmo bacchico con cui il regista, credo voglia stremare l’attore sottoponendolo a tale ritmo, a un’intensità teatrale, a un dispiego di energie, a una bella dispersione.”
V. OTTOLENGHI
Grazie ad Alfredo Giuliani e grazie a Fausto Malcovati che sono due figure fondamentali di intellettuali della cultura italiana; due parole sulla giornata di oggi, veramente speciale, perché chiude diversi percorsi. Questo è il terzo dei dialoghi d’arte e lo dedichiamo ai viaggi al centro della notte,i percorsi nel parco del Secchia che Franco Brambilla ha realizzato a partire da tre poeti del novecento importantissimi che sono Dino Campana, Rilke e la Cvetaeva. Il tema è fortissimo , ma vi si accenna spesso solamente di sfuggita: l’idea della poesia in scena, della parola che conquista lo spazio, l’oralità che va oltre la scrittura. Se noi ci pensiamo, tanto teatro è nato in versi, ha senso il verso in scena? Qui però è un lavoro ancora diverso, l’idea è che viene costruito un percorso drammaturgico tra natura e cultura,perché poi il percorso era in questo parco artificiale del Secchia con delle pause e lungo queste pause si ascoltavano frammenti di poesia e\o ,a seconda dei poeti ascoltati frammenti di vita,lettere, diari,tracce dell’esperienza della persona che ne ha scritto. L’idea di oggi è quella di cogliere , a partire proprio dalla Cvetaeva ,creare dei riferimenti. Due parole su Alfredo Giuliani e su Fausto Malcovati. A.Giuliani non è solo autore, ma anche animatore di esperienze culturali fondamentali, è tra i fondatori del gruppo ’63, ha scritto saggi di fondamentale importanza sulla poesia,in particolare ricordo quello su Leopardi. F. Malcovati è riferimento grandissimo per quanto riguarda il teatro russo. La nostra cultura teatrale su Stanijslavscki, ma anche Meierckhold ,passa assolutamente attraverso i suoi libri.
F. BRAMBILLA
Voglio parlare del rapporto che da anni ho instaurato con la poesia. Ho fatto diverse esperienze, da questo punto di vista. Ne ricordo una che per me è stata molto importante, l’esperienza con Sanguineti: ho lavorato su un testo suo,un testo poetico Laborinthus’, iniziato a Torino poi si è sviluppato in altre parti, cioè come il teatro inteso come punto di incontro dei linguaggi, non solo si apre alle arti visive, ma anche a una fondamentale esigenza di elaborazione di linguaggio e il confronto che io ho trovato e proprio con la parola poetica. La parola poetica è una parola difficile, perché è una parola che contemporaneamente significa tante cose,significa, apre orizzonti diversi,non descrive,ecco la chiave in qualche modo di un certo tipo di teatro che cerca una parola pronta per essere detta. Facendo un’operazione a ritroso,anche avvitata su se stessa, forse sono un po’ tecnico ma è questa la cosa che mi spinge sempre di più a confrontarmi con la poesia.Si apre un problema molto grande, la poesia, una parola nata per essere fondamentalmente letta diventa qualcos’altro, si ricrea in qualche modo in scena; in scena ci sono il corpo l’immagine, il suono, il ritmo, allora nascono in questo caso delle voragini che possono essere colmate con una creatività rilanciata e rinnovata con il poeta oppure un rifiuto. Capita che dica no, la parola è quella, nata per questo, mi rifaccio anche alla mia esperienza con Nanni Balestrini un continuo taglia e cuci, rinnovamento di significato della parola anche se è in qualche modo esistente preesistente, lui è un montatore, monta il linguaggio assembla, fa degli assemblaggi. Arriviamo a questo piccolo progetto di letture che questa sera si concludono nel parco: io mi sono confrontato con tre poeti molto diversi, alcuni anche più lontani in qualche modo culturalmente da me ,ma che sono importanti perché sono un attraversamento che io faccio con queste tre letture, e ritorno, arrivo alla Cvetaeva: ho visto la sua opera poetica attraverso la sua esperienza esistenziale, una persona segnata da una drammaticità incredibile, molto di più dei poeti a lei contemporanei ,e la fatica, la difficoltà della sua vita in qualche modo fa da contrappunto in alcuni casi, in altri casi fa nascere il verso. Ho cercato in qualche modo di restituire questo personaggio, facendo un collage, un montaggio tra esperienza esistenziale e poesia attraverso carteggi, attraverso le lettere, la lettera del marito, poesie scritte alla figlia; in realtà ci sono diversi fili conduttori. Il primo flo conduttore è un personaggio dell’ ‘Accalappiatopi’, che lei aveva scritto a Praga in conformità con un mondo gretto ,meschino, trasudante di opulenza e di ricchezza..C’è questa rabbia che emerge dal suo poema in qualche modo identificato nel suo personaggio. Il filo conduttore della lettura è un flautista, il pifferaio magico, l’altro è questa continua contrapposizione tra la vita e l’opera in una sequenza cronologica, parto dall’inizio, da prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, l’esilio, per chiudere con il suo ritorno in patria, il suicidio, questo è il ragionamento che è un po’ sottinteso, questo è l’ultimo viaggio. Ritornando al primo livello, è un rapporto molto problematico quello tra il teatro e la poesia, ma denso di stimoli,di possibilità di apertura verso una ricerca di linguaggio; in fondo il nostro compito è quello di trovare una forma per dire delle cose
F. MALCOVATI
Approvo molto quello che diceva adesso Brambilla,che in realtà la poesia di Cvetaeva è una poesia che ha un tessuto teatrale molto forte, che ha all’interno delle spezzature delle voci, delle esclamazioni, delle tensioni liriche che sono molto teatrali, in questo senso io credo che in realtà i poemi, in questo caso l’Accalappiatopi abbia una sua completamente diversa, ma fortissima resa se letta.Io ho sempre dubitato, ho sempre considerato abbastanza terribili le poesie lette ad alta voce in pubblico, ma credo che in realtà, per quanto riguarda la Cvetaeva sia una esperienza che valga la pena di fare, perché a differenza di altri poeti della sua generazione, penso alla Achmatova, penso a Mandelstam, forse in questo è più vicina a Maiakovski,a differenzadei due poeti che ho nominato la Cvetaeva ha una sua evidenza e una sua cadenza, letta può avere un eco che non ha nella lettura personale del lettore con la pagina, in questo senso qua e là ha la forza meno retorica di Maiakovski, ma ha la forza di certi versi di Maiakovski che vogliono arrivare al lettore rompendo schemi, imponendo un linguaggio che è completamente nuovo,con neologismi con rottura di parole,con forza di esclamazioni. In questo senso Cvetaeva è un caso nella poesia del 900 particolare. Anche Pasternak il grande interlocutore della Cvetaeva in tutti questi anni dell’esilio è un poeta che difficilmente suona ,che ha una sua dicibilità molto diversa da quella della Cvetaeva, in questo senso dico subito che sicuramente l’esito della poesia di Cvetaeva letta è un esito forte che teatralmente può avere una sua validità.Altro elemento che sicuramente va sottolineato è l’elemento musicale. Cvetaeva è figlia di una pianista di grandissimo livello che rinunciò alla carriera di concertista perché si sposò molto giovane,il marito non volle che continuasse, era allieva di Rubinstein e considerata una grande concertista. Cominciò prestissimo a studiare musica, rinunciò a una propria carriera( sto parlando di Cvetaeva) perché diceva amo la musica che sento da mia madre, quella è la musica che mi riempie di forza, la musica mia è un’altra ed è la musica della parola ed in questo senso cvetaeva prestissimo modulò il proprio verso sulla musica e il richiamo a elementi musicali è continuo. Lo spettacolo mi sembra che si apra con il flauto, anche se non è il primo titolo nell’Accalappiatopi ed è giusto che sia così, perché di nuovo nell’accalappiatopi c’è il grande tema della musica,anzi direi che una delle cose più toccanti di questo poema è proprio il rivendicare da parte di Cvetaeva la forza e la priorità della musica nella poesia. La storia dell’Accalappiatopi la sanno tutti, comunque forse vale la pena di ricordarla…questo pifferaio che poi diventa flautista che vince con la musica una minaccia, un pericolo, una calamità e però il mondo che è indifferente alla musica e alla poesia, rifiuta la vittoria della musica, non la riconosce,non da il compenso per il beneficio ottenuto e dunque l’unica vera salvezza è in una zona al di là del mondo nostro, del mondo degli oggetti che è al fondo del lago, dove sono prima affogati i topi che minacciavano la opulenta e soddisfatta e indifferente cittadina,poi i bambini che sono stati la vendetta ,poi in fondo anche Greta la donna che era il compenso. Andranno nel fondo del lago e là vivranno lontano dal mondo che non capisce. L’altro elemento fondamentale di questo poema è proprio questo: c’è una musica che Cvetaeva insegue nei suoi versi, che è una musica drammatica, non dimentichiamo che il poema è scritto a Praga nel’25, nel momento dei primi disperati anni dell’esilio, l’esilio che è questa rottura, il poeta in esilio è un contraddizione in termini, lo diceva tralaltro Brodskii nelle sue considerazioni sull’esilio, un altro grande esiliato, il poeta che non può parlare al pubblico, che non può scrivere per un pubblico, che è tagliato via dal legame fondamentale con chi capisce la lingua ,è un essere profondamente infelice e Cvetaeva questa infelicità l’ha vissuta fino in fondo fino a rendersi conto che forse era meglio tornare e morire, il ritorno della Cvetaeva fu un suicidio prima ancora che il suicidio vero avvenisse nella lontana Elabuga.Possiamo poi ritornare a parlare di questi temi,del tema dell’esilio e del destino della poetessa che è tutta la seconda parte dello spettacolo, il rapporto con la figlia e il marito, ma è anche il rapporto con questa realtà tremenda che è il 1919 a Mosca, la fame, la disperazione, la solitudine e poi è anche il ritorno tragico nel ’41.I n questo spettacolo non a caso non c’è il teatro di Cvetaeva, Cvetaeva è stata un’autrice notevole, Ronconi ha messo in scena Phenix la stagione scorsa e lo riprenderà,è l’autrice di alcuni testi straordinari, Fedra, il ciclo delle tragedie, Il Casanova, Cvetaeva ha usato anche il suo verso per il teatro, ma giustamente Brambilla qui ha usato il verso non per il teatro, …..Quello che dice il borgomastro è il quid, questo termine intraducibile, in nessuna lingua esiste un corrispettivo, il quid è la quotidianità soddisfatta di se,la quotidianità contenta, la quotidianità che vive bene l’oggetto ,il benessere e il quid che è il borgomastro non riconosce la poesia, non sa cos’è, non è un oggetto, non si tocca, non produce, il borgomastro non può rispondere all’accalappiatopi che suona il flauto, perché il flauto non è utile, non serve a niente, non da prodotto.
A. GIULIANI
Una lunga parte del discorso di Giuliani non si sente
.. la teatralità è vero che è un aspetto importante della poesia…Che cosa c’è di più teatrale dei discorsi, degli impianti di Leopardi? Leopardi costruisce uno schema,…..tanta scelte sono nettamente teatrali…………Ci fu un periodo di non poesia, attraversai il pensiero in un altro senso, …… mi iscrissi a filosofia, sapendo di non essere un filosofo….io feci quella facoltà : il poeta scrive poesia non per essere lettadiventavano di ruolo ma non potevano insegnare,poi c’era una gran massa di incaricati che dovevano essere rinominati ogni anno, poi c’era un gruppo potente molto più in alto di noi, i professori ordinari i quali dovevano fare un concorso…….intanto non insegnavano,…un sistema perverso che è rimasto perverso,ma è stato castrato. In questo sistema perverso mi sentivo in fondo come un estraneo accolto misteriosamente da ignari potenti, non sapendo che in realtà io ero un topo,lì non c’era l’accalappiatopi, i topi erano liberi di scorazzare.Le idee che mi ero fatta sul pensiero della poesia, quelle me le ero fatte anche attraverso quel periodo…..a ingurgitare tonnellate e tonnellate di obiezioni al cartesianismo, la filosofia tra Kant e Fichte,tonnellate di Kant di Hegel, di tutto, però essendo io completamente disincantato, a me non importava nulla,mi interessava il meccanismo del pensare, quindi quello che c’era di interessante non lo rifiutavo, ma non mi sentivo coinvolto, allora facevo un sacco di letture extra i corsi, scoprivo l’esistenzialismo, quando ho fatto l’università a Roma nella biblioteca dell’istituto di filosofia c’era un solo libro di uno studioso francese Jean Wahl erano le …’kierkegaardiennes’ molto interessante, però era un discorso intorno…..tra i quali io scoprii il pensiero di Micheldstetter,un giovane Goriziano che si era suicidato il giorno stesso in cui aveva spedito la sua tesi di laurea ‘La persuasione e la rettorica’,scopro questo strano giovane molto leopardiano…. Allora decido di fare la tesi su questa tesi….avevo messo gli occhi sull’edizione del 1922, era molto bella perché era completa,c’erano….sono riuscito a fare la tesi prima ancora di averla concertata con qualcuno. La hanno accettata, ma io non lo avevo fatto per disprezzo delle regole,non ci avevo pensato, frequentavo poco perché lavoravo la mattina, quindi conoscevo anche il mondo della alienazione. Con tutte queste esperienze i ricominciai a un certo punto a scrivere poesie e pochissimi,quasi nessuno, si è mai accorto che le mie poesie sono intrise di pensiero filosofantico,ad eccezione di alcune poesie che rievocano la vita infantile,che i letterati italiani ignorano, perché io non ho mai incontrato uno che della filosofia non avesse una conoscenza estremamente sezionata,marxista.. qualcuno che aveva simpatie esistenzialiste.C’è uno che conosceva un po’ la filosofia, era Moravia, Per i miei colleghi la filosofia normalmente non esiste,non la possono nemmeno percepire. Se tu scrivi una poesia satirica,molto satirica su un professore fenomenologo, questi non capiscono che è una parodia di Husserl, che sto usando il linguaggio di Husserl, che lo sto manipolando, loro non lo hanno letto e non lo leggeranno mai, perché quello era un volume sui processi logici, invece a me divertiva moltissimo come a un altro divertono le parole crociate, i dilemmi logici mi piacevano moltissimo, mi divertivo.Però nella poesia c’è un pensiero, c’è anche il sarcasmo nel modo di pensare, mentre una pagina di storia, di relazione amorosa, di relazione erotica di questo professore che cerca di spiegarsi la sua esperienza erotica…..Hanno pensato che era una cosa buffa, un po’ stravagante. Allora la mia esperienza della poesia mi porta a pensare che tutta la poesia è drammatica,tutta è musicale, ma c’è musica e musica, tutta è fondata sul pensiero o sul non pensiero e uno deve anche darsi un punto tradizionale, cioè da dove viene, allora io sono identificato come uno di quelli all’avanguardia. Sì, però non è tutto, io vengo dall’avanguardia dopo, un po’ prima sono venuto dalla filosofia ed attraverso un certo percorso filosofico sono arrivato anche ad acciuffare la realtà, ma quello che rimane è la connotazione filosofica, se non si coglie quella non ci si interessa, infatti sono pochi quelli che si interessano alla mia poesia. Ogni tanto ne trovo qualcuno e rimango sempre un po’ stupito, ma naturalmente io non demordo: le mie più recenti poesie sono più che mai leopardiane, penso o almeno spero che sia così.Faccio un passo oltre in senso orizzontale, faccio un piccolo passo oltre Leopardi,…..a proposito del vero e Leopardi è quel signore che nello Zibaldone,senza dare nessuna spiegazione dice in alcune pagine l’equivalenza tra il poeta e il filosofo;la differenza chiara tra la poesia e la filosofia ,non la vuole nemmeno dire troppo, non la dice in effetti, sono piccole sfumature. Questo lo dice una persona che poi ha filosofato tranquillamente nello Zibaldone attraverso le Operette morali e quando meno te lo aspetti lui parla da antropologo anche, una zona ancora allo stato aurorale, nel periodo di Leopardi non esistevano ancora gli antropologi, questo punto è importante per capire che io non sto fuori del mondo, non sono un tipo strano, non ho fatto altro che prendere alla lettera il mio ammiratissimo Leopardi e trasformarlo in qualche cosa che potesse esistere anche oggi…..Io sto nella tradizione,io sto nella tradizione e nella tradizione trovi molti incentivi. Fin dal principio abbiamo portato la poesia sulla scena in maniera però un po’ sarcastica e quieta esperienza la abbiamo fatta non perché eravamo avanguardisti… da noi si può cavare molto più sugo che dalla poesia tradizionale
F. MALCOVATI
Una domanda da spettatore: il poeta scrive poesia non per essere letta ad alta voce
A. GIULIANI
La poesia può essere letta solo mentalmente e questo pensiamo sia la cosa migliore, però è anche vero che è interessante sentire la sonorità….quando ho sentito mie poesie lette da altri, io sono inorridito, allora io senza nessuna arte di attore, ma cercando di fare una lettura di autore…….ci vuole un minimo di affabilità verso gli ascoltatori……..anche se non sei tanto bravo, però io quando sono in forma riesco a dare…….magari la volta successiva colgo una cosa che la volta precedente non ho messo in evidenza in modo particolare, poi c’è il fatto che l’autore non cerca di leggere in maniera espressiva perché non vuole sforzarsi.
F. MALCOVATI
Il problema vero è questo ,che tu scrivi……è un ritmo che dai tu ,te lo giochi tu, mi obblighi al tuo ritmo, speriamo che oggi tu sia in forma mentre io può darsi che come lettore ne abbia un altro, che non mi vada bene il tuo
A. GIULIANI
Però il testo comporta un rapporto, per me è un rapporto come con la partitura musicale.Ora tu puoi fare quello che ti pare,ma devi rispettare la partitura, io come lettore della mia stessa poesia rispetto la partitura e spero che anche poi gli ascoltatori se si trovano in mano quella stessa partitura, la leggano a modo loro, ma rispettandola, perché non puoi inventarti improvvisamente un sovrattono che nella poesia non c’è.
F. MALCOVATI
Se le tue poesie le faccio leggere a Carmelo Bene…
A. GIULIANI
Non mi piace come le legge
F. MALCOVATI
Oh che bella vita!!!!
A. GIULIANI
Perché, per esempio, io ho sentito Carmelo Bene in uno dei suoi spettacoli più purgati, era la lettura di Dino Campana, e non mi piaceva tanto come faceva Dino Campana. E’ un problema grosso
F.BRAMBILLA
La lettura su Dino Campana in realtà faceva emergere Carmelo Bene. C’è una totale scomposizione fra Dino Campana e Carmelo Bene….
A. GIULIANI
Se vuoi ti leggo non tanto Carmelo Bene , che non potrei, ma ti posso leggere “carmelobeneggiato”una delle mie poesie, facendo dei mugoliii
F.BRAMBILLA
Ma non è la stessa cosa
A. GIULIANI
Prendendo una parola e storcendola così, lo posso fare se vi piace di ascoltare un’esecuzione di questo genere, la facciamo
F. MALCOVATI
Vogliamo te
V. OTTOLENGHI
Mi pare che ci sia il desiderio di una domanda. Dico due parole su Stefano Tommassini, è uno dei pochissimi oggi nella contemporaneità sente l’esigenza di rimettere in moto il verso, quindi con una visionarietà di creazione, quindi di aggiunta del linguaggio teatrale al di là del significante e del significato su cui si sta discutendo
TOMMASSINI
Però non parlo dal cotè teatrale, Voglio fare un semplice esempio e parlare dal cotè’ filologico che è stata la mia formazione e perché mi è capitato di dovermi occupare per una recentissima antologia della poesia italiana Einaudi Gallimard, di alcuni poeti tra cui anche Elio Pagliarani, di cui ho curato la sezione in piena autonomia senza conoscerlo, ovvero soltanto come autore ma non personalmente. A distanza di tempo, quando il lavoro fu pubblicato nel volume dedicato all’otto-novecento curato da Segre Ossola, mi capitò di incontrare a Roma Elio Pagliarani, io ero a Roma per fare spettacolo e ci incontrammo; mi invitò il giorno dopo a un incontro che si svolgeva all’Argentina,curato da Pedullà dove lui sarebbe intervenuto, lui intervenne e lesse alcune sue poesie tra cui parti dalla “Ragazza Carla”, quelle stesse parti che io avevo selezionato per la mia antologia e che avevo anche volutamente commentato, questa antologia è di impianto continuano con grandi apparati e indicazioni delle fonti, per me fu rivelatore oltre l’approccio filologico la voce del poeta che legge le sue cose, nel caso di Pagliarani assolutamente brillante, ricco , con questo accento romagnolo imprestato alla romanità e mi mostrò della lettura, della voce non attoriale che legge la poesia una libertà, non un rispetto, una profonda libertà e quindi la messa in voce è ovvio che non è la lettura, è un’altra cosa rispetto alla lettura è una liberazione, una parallela liberazione…..In realtà mettere in voce una poesia oltre all’aspetto performativo che implica necessariamente un controllo della voce, dello spazio, ma insomma in genere quello che può fare ognuno di noi,anche quando si scrive un articolo e lo si prova ad alta voce ,per vedere se funziona, così mi hanno insegnato ed io ancora mi ritrovo a farlo, è un tentativo di liberare la parola, di liberarla oltre, di fare una ulteriore prova del nove, che se non funziona quella ,forse non funziona nemmeno quella della lettura, anche la fonetica implica la muta eloquenza della parola..è una ipotesi.
F. MALCOVATI
Io sono molto contrario, sono due cose parallele, come dice Giuliani, sono pochissimi quelli che riescono ad essere non dico brillanti,perché non mi interessa la brillantezza,ma coerenti con la loro scrittura\,fondamentalmente io sento fastidio nella lettura di una poesia, perché la poesia è una esperienza che deve essere fatta prima di tutto ….
TOMMASSINI
Ariosto senza voce non esiste,l’ottava ariostesca senza la messa in voce non esiste.Gran parte della poesia italiana è scritta per essere detta ad alta voce, almeno fino al 700 per essere cantata addirittura….Sanguinetti non riderebbe a sentire dire di Metastasio-chi se ne frega-……
Altri interventi,ma non si sente in modo sufficientemente chiaro
F. MALCOVATI
Anche nel ritmo della lettura io voglio i miei tempi,non quelli che mi vengono imposti, vai più piano, lasciami collegare, lasciami prendere le parole, mettermele dentro e farle lavorare…….
In quel senso-sempre libera degg’io- è collegata con la musica su cui è scritta….non mi parlare di poeti che hanno scritto per la musica….adesso facciamo leggere Giuliani…..
Non si sente
A. GIULIANI
Si va per allegria……. sta recitando una sua poesia , ma non sono in grado di trascriverla
Applausi
F. MALCOVATI
La voglia che io ho adesso è di pigliarmela e di star lì davanti e di rileggerla,non sono contento, non mi basta
V. OTTOLENGHI
E’ bella anche questa idea che non basta, che dal suono, da queste parole di pensiero che nasca la voglia al di là del suono ,di ripenetrarle, magari anche di…….
Non si sente
F. MALCOVATI
Io dalla lettura ho colto per esempio una cosa che mi è risuonata molto di più, questo accento sulla A, ohilà, al di là, io questo l’ho sentito,ma qui lo trovo sulla carta……non si sente…….
A. GIULIANI
Si può fare, ma ci sono circostanze……un gruppo romano aveva il compito di preparare una parte di uno spettacolo, tra i testi che noi avevamo preparato…..e poi c’era Pagliarani che non s’era scomodato a scrivere una cosa apposta e aveva fornito una parte….che si prestava a diventare una sceneggiata. Questo regista, molto intelligentemente ha capito il senso….ha fatto una regia molto tradizionale, compreso anche la scenografia molto adatta per quella situazione……con Pagliarani che cosa ha fatto? L’ha completamente stravolta, rispettando il testo,le parole erano quelle,tali e quali, però ha inventato, ha messo là gli attori in fila, ballonzolanti come se fossero..-danza moderna-erano in fila sei sette attori che facevano strane cose, tre passi così alzando la gamba,allora andava lo yè yè,ve lo ricordate?Allora le stesse parole dette in coro da questi sette sciantosi e sciantose che si atteggiavano non troppo, ma a ballerini del varietà, era un modo efficace, andava benissimo, una volta si può fare quel pezzo di poesia, ma non puoi prendere tutto Pagliarani e farlo in quel modo. Ogni volta che ho scritto queste che ho chiamato poesie di teatro, mi son guardato dallo scrivere solo un verso,ci sono qua dentro, ci sono dentro questo libretto.
F. MALCOVATI
Però io trovo che per esempio che la Cvetaeva è, contraddicendo quello che ho detto fino adesso,è una poetessa che detta assume una sua nuova dimensione. Il suono delle parole di Cvetaeva hanno una energia ,hanno una vibrazione che è molto particolare, in questo senso ascolto volentieri la Cvetaeva, anche se poi insisto nel volermela gestire io di nuovo come voglio gestirmi io questo tuo testo
A. GIULIANI
Però recitata non ti da fastidio
F. MALCOVATI
No,no, certo e credo che il lavoro sul verso della Cvetaeva fatto dalla voce degli attori dia dei risultati che per un regista che deve avere la parola detta sia di grande forza
V. OTTOLENGHI
Al di là del dire del leggere del recitare il teatro ha gli altri linguaggi; fino a questo a questo punto la discussione si è incentrata sul leggere e il dire, il leggere del poeta , il leggere dell’attore, il leggere personale il leggere dopo aver capito, l’ascoltare e il leggere dopo e sono tutte modalità possibili, non penso che ci sia una regola,però sicuramente il teatro mette anche in scena e non necessariamente mette in scena nella direzione di una spiegazione o di un arricchimento legato a quella poesia, tanto che il lavoro che ha fatto Franco è stato quello di costruire un percorso drammaturgico che comprende sì anche la lettura del testo ma mette soprattutto in gioco la concezione drammaturgica degli spazi ed è qualcosa che va al di là dell’ascoltare, leggere.
F.BRAMBILLA
Io partirei da un problema grosso che riguarda il caso dei poeti tradotti, ma particolarmente la Cvetaeva, il verso russo è perduto, perduto completamente, il suo verso ha una grandissima musicalità, si richiamava un istante fa il suo rapporto con il pianoforte…io avevo iniziato a lavorare con Wim Mertens sulla Cvetaeva, lui aveva scritto anche delle musiche molto belle…ciò che avevamo trovato era esattamente questa musicalità che però in italiano viene tradita, ho cercato di trovare delle poesie in francese per riuscire a capire in una lingua a me incomprensibile che cosa poteva significare; il primo limite è stato questo, è molto grosso, perché un ritmo nella lingua originale ,…..il rischio invece era più semplice….io parto dal presupposto che in tutto questo lavoro io ho cercato,non di rispettare la Cvetaeva,non di ossequiarla ma di restituirla come poi la sento io..o tu fai un lavoro sul significato che lei ha voluto tirar fuori, sulle sue strutture,, oppure semplicemente come tu la recepisci, questo mi capita molto spesso quando leggo la poesia-il problema è poi invece la qualità dell’attore, io lavoro per due o tre giorni, quindi non siamo di fronte a uno spettacolo,siamo di fronte a delle letture quindi mi sono appoggiato moltissimo agli attori, mettendo in gioco come l’attore sentiva determinate cose, proprio perché non avevo né tempo né mezzi, né era il caso di fare un lavoro minuzioso sulla parola. La musicalità che risulta della Cvetaeva è qualche cosa di contemporaneo, sono convinto,io non parlo il russo,sono convinto ce lei sia molto ridondante nella sua lingua, questa è una intuizione che ho, molto carica, è una ipotesi che mi sono fatto. Cvetaeva ha una durata particolare, infatti il “poema della montagna”non l’ho potuto tagliare, tranne un pezzettino, perché ha un senso di musicalità non semplicemente della parola, ma come un arco perfettamente disegnato che se tu vai a toccarlo ti crolla,già nel significato, io sono molto d’accordo con quello che diceva Giuliani, la poesia non è suono, la poesia è concetto,è idea, è posizione nei confronti del mondo, esprime, ha la supremazia dal mio punto di vista su tutti i linguaggi, perché è un concentrato, con la poesia dici tante cose contemporaneamente. Questi sono i problemi che ho trovato, non so se sono riuscito a risolverli, credo proprio di no,ho cercato di creare uno squarcio.
F. MALCOVATI
Cvetaeva,non nei suoi esordi di tipo simbolista, ma negli anni dall’esilio in poi non prescinde mai dalla sostanza di quello che vuol dire, L’accalappiatopi è la storia del suo rapporto col potere e poi col potere sovietico e poi con chi le dava le patate marce, c’è tutto in quel poema che sembrerebbe la storia di una fiaba, c’è il suo dramma sempre più dilaniante di un poeta che il potere non accetta, che a sua volta non accetta il potere, in questo senso “L’accalappiatopi è fondamentale per il suo contenuto al di là di questa forza del verso, delle parole, delle rotture, c’è dentro tutta la sua storia
A. GIULIANI
Lei è insieme il topo e l’accalappiatopi
F. MALCOVATI
Ma non tanto i topi che per lei sono coloro che aggrediscono il benessere il guitto ecc.è piuttosto i bambini che vengono portati nello stagno, Greta che viene portata..cioè è l’anima che è contro la grassezza della città, certo lei è colei che suona il flauto, gli altri sono quelli che non le danno il compenso, in questo senso Cvetaeva è una di cui si sente lo spessore di un verso scritto sul sangue sulla sua esperienza, sofferenza, in questo senso capisco che abbia reso anche teatralmente, in maniera forte
F.BRAMBILLA
Oltre il verso c’è lo spazio,il tempo, la durata, cosa vedi, il teatro è un calderone, un coagulo di linguaggi, lavorare sull’idea della durata è importante, il percorso in questo caso è azzeccato, il rapporto tra la poesia e l’andare, anche se è molto faticoso in realtà, in questi giorni poi è terribile il fango…che in effetti da il senso della concretezza, la fatica di questa poetessa viene fuori anche dalla fatica che fai tu come pubblico. Lavorare su dei piani di esperienza comune e anche parallela, non c’è semplicemente l’idea del verso, del significato, del suono, della parola, dell’attore, ma questo all’interno del disegno più complesso dove metti in gioco davvero da ciò che vedi, ciò che senti.Ieri c’era molta umidità e si sentivano i treni fortissimo, da una parte mi dava fastidio, dall’altra parte era un segno di concretezza che in realtà ti toglie l’illusione, la rompe e ti continua a dire sei in un parco con l’autostrada e il treno e siamo qui a sentire un poeta, è l’una e mezzo di notte e stiamo sentendo il poeta. Questa concretezza è un aspetto importante, perché ritrovi anche un senso, qualche cosa che rompe una sorta di enfasi che a volte si può ritrovare, soprattutto nella Marina ed è proprio questo il significato,far cadere la parola nel concreto, nell’andare del pubblico,nell’essere qui in questo momento. In fondo quando il non tanto amato Carmelo Bene ti crea delle immagini con la sua vocalità con la sua voce, i paesaggi li vedi attraverso la sua voce…..
Malcovati
Scegline un’altra e leggi
A. GIULIANI
Questa è una cosa che appartiene a una specie di poemetto che si chiama “Il tautoforo” che è stato scritto tra il 1966 e il 1969, risale a più di trent’anni fa, il suo titolo è “Io stesso e il teatro”. Io a quel tempo sperimentavo una forma un po’ libera, vagamente parasurrealista, ma è un’altra cosa perché c’è anche qua un tentativo..quello che parla non sono io anche se adopero anche me stesso, quello che parla varia sempre, è sempre un personaggio un po’ stravolto,-specialmente linguisticamente il suo rapporto con la realtà lui cerca disperatamente di spiegarlo, di inseguirlo di spiegare, di spiegarsi le cose, quello che succede, quello che fa lui e lo fa in questa maniera che sfugge alla logica, lui ce l’ha la logica, sono questi tipi di super-nevrotici raccontati spesso dagli psicologi bravi, quelli che raccontano le storie… io ne avevo studiati molti di questi racconti,ma questo non viene da un racconto di uno psichiatra “| Nei lunghi periodi di silenzio mi sdraio sotto gli ampi cieli di una scala di servizio o mi appollaio pensando che quei bravi cavalieri cavalcarono il loro lurido lupo alla scuola di danza Fu sempre un bene per me se cerco di capire quel che sto pensando Intrecciare le dita stirando gomiti e pollici in fondo lei spiega il mantello di lepre sull’erba pelosa come voi… che dolce pulsazione pelvica quando alza il ginocchio e scopre la lumaca il corpo è tutto in grandezza naturale e avanza come in sogno i movimenti rallentati nel plasma io non chiudo gli occhi le braccia in posizione di guida su un camion fiammeggiante il tonno guarda in su tra bordure di salvia scarlatta è verdeblu come le rape cinesi e dev’esserci un significato nascosto se il pavimento è un vetro nero e le ragazze affusolate in una città sconosciuta si inoltrano a tentoni levando grosse bolle di tenero profumo da sotto i raggi della luna e anche inciampano ce n’è che ballano sulla superficie vetrosa di un torrente vedo il ricamo delicato dei piedi la foresta ansima e un esercito di muscoli trasporta senza capire ….ombrelli sulla schiena finché un gruppo di fuggiaschi in corsa simula di scaricare la tensione diurna nell’ululato del lupo sono gli abitanti ora se cerco di capire la nettezza delle sconcertanti onde del corpo immobile della tigre stordita o uccisa tra i giunchi non permetto al terzo occhio di eccitare la mia fronte ……se ne dorrebbe a tal punto che il teatro credo ,opera di mistero e applauso supposta da uomini e bestie intelligenti risorgerà “.
Di Franco Brambilla
…Io resto con la consapevolezza terribile che tutto sia in realtà null’altro che l’espressione di una possibilità, una delle tante, e che il futuro altro non sia che una probabilità, una sorta di ars combinatoria che di volta in volta genera un possibile futuro, sempre confutabile e ridefinibile; di qui il mio amore per Raymond Roussel e il mio senso di inadeguatezza nel considerare l’opera come riproduzione o interpretazione pre-organizzata. Il risultato finito, compiuto, chiuso in una forma data mi spaventa,-la mia consuetudine a non considerare mai definitiva la forma espressiva raggiunta! – lo vivo come una sorta di morte, un cliché che uccide il contraddittorio.
In questa direzione, da sempre, antepongo ad una drammaturgia compiuta, una sorta di operazione che tenga insieme i molti piani della comunicazione, ad un testo scritto contrappongo un lavoro drammaturgico che inglobi non solo l’elemento verbale ma il funzionamento stesso dell’opera, intendendo con tale termine la totalità delle componenti che costituiscono la macchina complessa dello spettacolo, come nel caso emblematico di SS9 Ulysses on the road ove l’idea di viaggio e il suo divenire rappresentazione mi hanno portato alla figura di Ulisse e non l’eroe omerico e la tradizione letteraria che l’accompagna allo spettacolo. Tengo particolarmente a questa precisazione per evidenziare l’idea di operazione globale che alcuni dei miei lavori contemplano: non si tratta di sottolineare il rapporto arti visuali e teatro (per altro in essere da secoli) nè tanto meno il vincolante e multiforme rapporto tra musica e teatro. Viceversa alla base del mio linguaggio vi è una concezione di rito o festa o esperienza, di viaggio appunto, che scaturisce spesso dall’incontro con le architetture e con gli spazi urbani. Drammaturgia dello spazio? Cerco di inglobare le esperienze delle avanguardie, ma anche di rapportarmi alle forme di teatralità che guardino ad alcuni concetti fondamentali del mondo contemporaneo: la nozione di territorio, radicalmente trasformatasi nell’ultimo decennio, dalla scoperta dei non luoghi, al territorio come paesaggio, all’invenzione del proprio territorio nella totale assenza di una visione unitaria .
Inventare e interpretare il proprio territorio è come negare l’esistenza di una pre-organizzazione: sarà allora chiaro come questo concetto venga ad interferire profondamente e a volte a determinare l’operazione drammaturgica. In altri termini è il mondo concreto e reale che mi circonda, fatto di spazi e cose, che entra in stretta relazione con la struttura drammaturgica del mio lavoro la cui ossatura prima ancora che narrativa è quella di una macchina che produce significati, a volte anche diversi tra di loro, spesso, non sempre, tenuti assieme da un principio analogico-associativo.Il risultato può generare varie e molteplici soluzioni, inglobando una sorta di precarietà, fornendo diverse chiavi di interpretazione che nel loro possibile darsi propongono ulteriore senso.
Il mio lavoro in fondo è solo il tentativo di trovare un equilibrio precario e momentaneo, soggetto a regole che, attraverso una forma, lo rendano coeso -chissà!- forse per un solo istante. L’elemento di coesione è in realtà un flusso, come nel caso di Aqua micans che nasce proprio dal senso dello scorrere di un acqua metaforica o virtuale, non dell’elemento naturale riconoscibile nella formula chimica di H2O, di una sostanza vitale che genera o distrugge, che unifica o separa, che mescolata alla terra produce fango, alla farina pane. Un flusso, come il flusso della creazione, come la pulsione erotica che, nell’arte, trasforma l’immagine da semplice “cosa” in “opera“ o la parola da strumento linguistico in uso nella vita quotidiana in significante che va oltre, che apre sensi e visioni, come accade con la parola della poesia che è la stessa che usiamo ogni giorno per andare a comprare qualcosa al supermercato ma che diviene altro nel momento in cui viene “erotizzata”.
Note
Aqua micans è un coagulo di temi ed esperienze forse troppo ampi per poterli esprimere in forma di scrittura, ma sinteticamente posso cercare di condensarli in una prassi di lavoro, un flusso, lo scorrere dell’acqua che è scorrere del tempo, della vita, elemento concreto che genera o distrugge: è questo flusso che mi porta a trovare forme, immagini, azioni, testi, citazioni, parole, una sorta di lente attraverso la quale guardare e trovare. Ecco perché il trattato di pittura di Leonardo Da Vinci con l’immagine di gocce che cadono ritmicamente creando musica, ecco perché la successiva visione di vita, di feti, di danza primordiale, o ancora le statistiche e i dati sul dissesto ambientale intrecciati con la narrazione di frammenti di storie di vite insignificanti ma possibili, con la visualizzazione in tempo reale delle nascite e delle morti nell’intero pianeta, ecco infine perché un individuo solo nel fango, frammento di un Beckett che tutto azzera come per non voler dare altra soluzione all’uomo che una condizione definitiva dalla quale poter uscire solo con ed una mitica tribale come ha ripetuto l’amico Alfredo Giuliani in una recente conversazione. Sento Aqua micans come una sorta di visione (mia) che mi ha portato a sbirciare, non ad analizzare, e a cogliere, in molti materiali visivi, sonori, testuali come delle corrispondenze, delle icone di un mondo in bilico su un baratro, di cui l’acqua è possibile emblema.
Un segno inequivocabile: le installazioni, non elementi decorativi ma immagini che si snodano e fluiscono nello spazio, spazio che si riproduce, che estende la percezione nel tempo e che ingloba attori e spettatori co-attori dell’opera, verso l’azzeramento della differenza dei ruoli. Pubblico come pellegrini che condividono il rito, quello del teatro? Quello di un rito propiziatorio nascosto (non troppo) nella conclusione del lavoro?
Nel chiostro dell’Ospitale quattro lati perfettamente speculari compongono una Via Crucis sospesa nel silenzio fatto dei segni forti delle immagini, dei suoni che conducono progressivamente ad una sospensione, in un itinerario fluttuante fino alla forte ed estenuante, sia per i danzatori che per gli spettatori, danza finale che scioglie il percorso e ci consente di abbandonare il viaggio e di tornare a casa.
Ecco forse uno dei possibili sensi di una installazione che vive di teatro, di musica, di danza e di una ritualità contemporanea inscritta nella fruizione dello spettacolo dove fondamentale per me è il passaggio tra diversi registri comunicativi: l’attore diventa immagine, l’immagine drammaturgia, il flusso dell’opera tempo.
Il tempo è il protagonista del viaggio di Aqua micans.
Il tempo dell’arte, della poesia della festa, del rito,
del teatro non è successione omogenea
non è fatto di qualità sempre uguali
apro il tempo e faccio uscire nello spazio breve di questa festa
il presente eterno…
che si ristabilisca,
che il tempo ritorni ad essere creatore
Il legame tra visioni e musica, parola e significato non ha valore di senso, (non voglio dire nulla, non ho nulla da dire, da comunicare, non voglio essere portatore di nessun messaggio) ma di abbandono nel flusso delle immagini e del suono. Tutto è immanente alla relazione tra forma e flusso di tempo che scorre e che fluisce come da sotto i piedi dello spettatore.E’ un fiume che trascina in una direzione, quella della danza tribale di noci e campanelli dove la fatica dell’attore è forza primordiale. Non casuale perciò la scelta di danzatori-attori non europei, non casuale la dinamica del lavoro che si snoda con corrispondenze di contrari, con geometrie che alludono ad una ritualità, dal diluvio di Leonardo da Vinci (acqua come sfondamento immaginifico), all’acqua come vita, come fascinazione ipnotica in una dimensione sospesa tra visione e nostalgia di una condizione perduta e irrecuperabile, all’acqua come elemento generatore di conflitti e squilibri nel mondo attuale, voluti e costruiti dall’uomo, speculare anche spazialmente alla prima, non immaginaria ma reale. Tutto in quell’istallazione è reale: i dati del dissesto ambientale, le storie di vite e di persone improvvisate dagli attori, i numeri che riferiscono i dati delle nascite e delle morti. La macchina della visione si sospende creando come un tuffo nella realtà: nell’azione che si annulla, nel corpo che si nega, nella voce stessa che perde la propria fisicità, lo spettatore è richiamato ad una dimensione speculativa .
Il tempo è caduto nel fango
se afferro un attimo
all’aprire le mani è già passato
se misuro l’attimo
è già sfuggito
torno a misurarlo
sono già fuori dal reale
solo presenze incerte
e fantasmi della realtà
di quell’attimo rivivono
Ma vi è un altro piano su cui occorre brevemente soffermarsi: la forma è espressione di un pensiero, nella forma il pensiero deve morire. L’esperienza personale non è chiamata in causa in questo processo, la forma parla, io parlo con le forme, ciò che dico lo dice la forma, non io.
Aqua micans è una forma, anzi una formula. In essa coesistono tanti piani che giungono ad una sintesi. Raymond Roussel c’entra, eccome, ma c’entra anche tutto ciò che ruota attorno a me nel momento in cui faccio, una sorta di metro di misura dell’arte, della letteratura, della musica con la realtà. Io ho solo creato un procedimento: tutto il resto è scarto tra immagine e visione.